La mia prima volta… in carcere
Mi reco, per la prima volta nella mia vita, in un carcere a tenere dei programmi di Sahaja Yoga. E’ un’esperienza che desidero fortemente e alcuni giorni prima chiedo a Lucio se posso andare con lui per aiutarlo in questa iniziativa. Quella data, cadendo nel periodo natalizio, è un po’ a rischio: molte guardie sono in ferie e quindi fino all’ultimo non si sa se la cosa può andare in porto.
In orario, come non mai, ci presentiamo accompagnati anche da Daniela, all’entrata del carcere di Velletri, che dall’esterno ha un aspetto non propriamente austero, sembra
più una scuola che un penitenziario, sebbene di dimensioni enormi.
Come potete immaginare passiamo almeno tre o quattro posti di guardia dove i nostri nomi vengono diligentemente trascritti su degli enormi registri.
Una guardia, ad un certo punto, molto innervosita, tra le nuvole di fumo che emana la sua sigaretta, comincia a creare problemi quando nota il lettore CD che noi portiamo per sentire la musica. “Eh no, questo non può proprio passare! C’è il tasto per registrare e qui come potete immaginare è assolutamente vietato fare registrazioni! “.
Una rassicurazione convincente del buon Lucio ci fanno superare anche questo ostacolo. Finalmente la guardia ci accompagna al quarto piano nel settore dove i nostri amici ci aspettano. L’accoglienza, in effetti è molto calorosa: “Uhe professò siete arrivati eh!. Cumme state!, avete fatto buone feste?”
Mi presento e comincio a chiacchierare con alcuni di loro: un signore napoletano di una cinquantina d’anni, mi colpisce subito con le sue riflessioni. “Sai,” mi spiega, “qui è un po’ difficile meditare . Infatti viviamo tutti in celle da due e se il tuo compagno non fa Sahaja Yoga, allora è ‘nu guaio, ti comincia a prendere in giro, lo sai com’è qui. Io però sono fortunato perché anche il mio compagno segue il corso e quindi meditiamo insieme. Da quando faccio il pediluvio la sera sto molto meglio, anche fisicamente certi miei problemi si sono risolti…”
All’inizio la situazione è talmente naturale che non ti sembra di stare in un carcere, infatti nella saletta siamo da soli, le guardie aspettano fuori anche se con occhi vigili e attenti. Poi però da alcune loro riflessioni capisci che non è poi così normale come sembra.
Nel loro parlare accennano sempre alla vita di “fuori” e alla vita di “dentro”:
“Professò, qui dentro non abbiamo sicuramente il problema dello stress o del ritmo sfrenato della vita che ha la gente di fuori. Il tempo per meditare non ci manca, ma il guaio è che c’abbiamo anche un sacco di tempo per pensare!”
Finalmente ci accomodiamo su due file di sedie di plastica disposte all’interno di una sala ricreativa molto fredda ed umida dove trova alloggio anche un bigliardino ed un tavolo.
Appendiamo il nostro omino di stoffa tra le ante di una finestra e fissiamo al muro una foto di Shri Mataji, che, per motivi di sicurezza, non è dotata di cornice.
“Oggi” annuncia Daniela “abbiamo portato una novità in più, la candela e l’incenso che alla fine lasceremo a ciascuno di voi “. Il modo in cui fanno la fila per prendere quel dono così semplice ed innocente è la testimonianza più chiara ed esauriente di come siano così poco abituati a ricevere un po’ di attenzione .
Non trovando posto nelle sedie a noi riservate, mi metto a sedere in mezzo a loro, mentre altri detenuti arrivano alla spicciolata. “Uhe” accenna un ragazzo indicandomi “ ma questo è uno nuovo, da quanti giorni sei arrivato qui?” Risata generale .
Lucio inizia il programma con una piccola introduzione su Sahaja Yoga per un detenuto al suo primo incontro. Sottolinea che questo progetto non è mosso da intenti buonistici ma aspira ad essere un esperimento innovativo di rieducazione sociale e spirituale. “ Allora simmo come dei pionieri !” ammicca un altro.
L’attenzione con cui seguono il programma è ammirevole , dimostrano molta curiosità e sono prodighi di dubbi e domande sugli aspetti pratici della meditazione.
Ad un certo punto alcuni si abbandonano ed iniziano a farci confidenze sulle loro esperienze personali.
Un ragazzo siciliano dichiara entusiasta: “Professò, ma lo sai che da quando tengo la foto di Shri Mataji in cella, la mia vita è cambiata, ho risolto più di una situazione difficile che mi dava pensiero”. Naturalmente non chiediamo ulteriori dettagli per discrezione, ma non facciamo neanche in tempo ad approfondire perché i compagni lo inondano di applausi.
Poi un altro: “Quando mi sento triste, passo la mano sinistra sulla fiamma del fornelletto a gas che tengo in cella e mi sento più sollevato!”. Altri applausi.
In realtà, quegli applausi non vengono dalle mani che battono l’una contro l’altra ma è il suono ritmato di cuori che battono, stracolmi di gioia che si abbandonano ad un gioco senza fine, oltre ogni barriera e confine disegnati dalla legge e dal giudizio.
Inizio a guidare una semplice meditazione con il sottofondo di musica indiana e di colpo silenzio ed attenzione riempiono la stanza. Li lavoriamo, uno ad uno. Ad un certo punto il signore napoletano mi chiama: “Senti, senti la mia mano destra!”
Un intensa brezza fresca mi avvolge e mi meraviglia. Si, perché è proprio la meraviglia di questi momenti così intensi e diretti che nutrono e
fortificano il nostro essere. Anche dopo tanti anni in Sahaja Yoga la nostra mente e il nostro cuore esigono e pretendono sempre nuove conferme e, come non mai in questo momento, abbiamo bisogno di ritrovare questa dimensione originale e genuina con l’entusiasmo delle prime esperienze.
La meditazione quotidiana, penso che debba essere come una magia capace di rinnovarsi ogni giorno lasciandoci sempre esterrefatti dei suoi effetti così speciali ed inaspettati.
Sono le 16.00 e dobbiamo andare via. I detenuti ci ringraziano, fanno la fila per stringerci la mano e qualcuno chiede qualche altra foto: “Sai, la voglio dare ad un mio amico. Ce ne ha proprio bisogno! Ah proposito ritornate si, la prossima settimana ?”.
Questa è la cronaca di un momento che seppur nella sua brevità, circa un’ora e mezza, ha suscitato in me molte riflessioni e anche qualche speranza. Se Sahaja Yoga funziona, così bene con quelli che vengono considerati i cosiddetti scarti della società, bhè forse c’è ragione di credere che funzioni anche con la cosiddetta parte buona.
E credetemi se il carcere deve svolgere una funzione rieducativa e non punitiva chi, se non la meditazione, può rieducare senza punire e senza giudicare ?
Lorenzo Ghirardi
tocca la coscienza nel profondo e dà adito alla speranza.
È bellissimo! Lei porterà fuori queste persone dalla prigione